L’ex di Torino e Parma ha giocato con il Palmeiras nel 1995-96, quando il club apparteneva alla Parmalat di Tanzi: "Un gol, le grigliate a casa di Cafu e tanto divertimento"

Andrea Schianchi

Marco Osio ha fatto come i salmoni. Un giorno del 1995, stanco della solita, routine, ha riempito la valigia, si è infilato nella fusoliera di un aereo e ha affrontato il percorso andando controcorrente. Dall’Italia al Brasile, l’opposto di ciò che avveniva di solito. E’ l’unico calciatore italiano ad aver tentato un simile viaggio. Destinazione San Paolo, Palestra Italia: il Palmeiras.

Come nacque quella decisione?

"Mi ero appena svincolato dal Torino e mi stavo allenando a Collecchio, a pochi chilometri da Parma, con una squadra di dilettanti. Conoscevo da qualche anno i dirigenti della Parmalat Brasile, che era proprietaria del Palmeiras. Il presidente Gianni Grisendi mi telefonò mentre stavo facendo gli esercizi di riscaldamento. Venne il massaggiatore tutto agitato: “Marco, una chiamata dal Brasile, è urgente”".

E che cosa le proposero?

"Grisendi fu diretto: “Fa’ le valigie, salta sul primo aereo! Ti compriamo”. Si era liberato un posto per uno straniero, perché Freddy Rincon si era trasferito al Real, e loro pensarono a me. Ne parlai con mia moglie Federica. Decidemmo che sarebbe stata un’avventura affascinante. Un giocatore italiano in Brasile, chi l’aveva mai visto?".

Come fu l’impatto?

"Meraviglioso e stralunante. Mi spiego: io vivevo a Parma, città molto bella, molto civile, ma piccola. Alle dieci di sera per strada non c’era un’anima. A San Paolo sbarcai in una metropoli che viveva a mille all’ora per 24 ore al giorno. Pazzesco! Il traffico, il caos, lo smog, i tifosi che saranno stati cinquemila a ogni allenamento, gli autografi da firmare. Io ero abituato ad allenarmi in un parco, a Parma, e attorno al campo c’erano al massimo 4-5 pensionati. A San Paolo, se calciavi male in porta durante l’allenamento, ti beccavi gli insulti della gente".

La prima cosa a San Paolo?

"Una grigliata. È obbligatorio. Andammo a casa di Cafu, mio compagno di squadra. Mangiammo e bevemmo fino all’alba. Mi sembrò di essere arrivato su Marte".

Com’era quel Palmeiras?

"Dire fantastica è poco. C’era Cafu, appunto, e poi un certo Rivaldo, e poi Djalminha, Muller... Quando si palleggiava durante gli allenamenti il pallone non cadeva mai per terra. Spettacolo puro".

E lei che cosa ci faceva in quell’orchestra di violinisti?

"Ero un imbucato. No, a parte gli scherzi, con i piedi non ero mica malaccio: le giovanili al Torino, io sono un ragazzo del Filadelfia, e poi gli anni con il Parma di Scala, la vittoria della Coppa Italia e della Coppa delle Coppe, insomma avevo un discreto curriculum".

Restò solo un anno. Perché?

"Mio moglie rimase incinta e decidemmo di rientrare in Italia, ma i dirigenti del Palmeiras volevano che prolungassi il contratto".

Venti presenze e un gol.

"E la conquista del Campionato Paulista con il record di punti: impresa incredibile. Il gol lo segnai alla Juventude, non poteva essere diversamente per un granata come me. E dovetti pagare la cena a tutta la squadra: non vi dico quanti amici e amici degli amici s’imbucarono per mangiare gratis".

Il suo allenatore fu Wanderley Luxemburgo.

"Un maestro, che mi prese in simpatia. Prima, però, c’era stato Carlo Alberto Silva che non mi vedeva bene: voleva che dall’Italia gli mandassero Dino Baggio e non il sottoscritto. Insistette parecchio, fece polemiche con la società e poi, siccome perse il Campionato Brasileiro, lo cacciarono. Con mio sollievo".

Tifa ancora Palmeiras?

"Per forza. Conquistata la Libertadores ho improvvisato una piccola festa. Quella maglia è sulla mia pelle".

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