Dagli Usa Sixth Street porta soldi freschi, è ormai solo un lontanissimo ricordo l'accordo con Unicef

dal nostro corrispondente Filippo Maria Ricci

Il 16 ottobre del 2006 Joan Laporta partiva per New York trionfante: andava in America a firmare con Unicef quello che partendo da Barcellona il presidente allora definì “un accordo con un’anima, la Champions a livello sociale. Il club aiuta l’infanzia e la cosa significa che il Barça ha un futuro”. Oggi, meno di 16 anni dopo, il presente blaugrana è nero e il futuro incertissimo. E Laporta ha scelto di guardare ancora all’America, sull’altra costa, a San Francisco. Li è la sede centrale di Sixth Street, la multinazionale dell’investimento, che dopo aver iniettato cash nelle casse del Real Madrid (per la gestione del marketing del Bernabeu) sta letteralmente salvando dall’oblio economico (e di conseguenza sportivo) il Futbol Club Barcelona.

Tracollo economico

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In questi 15 anni abbondanti sono successe tante cose: Laporta ha inventato il Barça di Pep, si è preso il primo triplete della storia del calcio spagnolo, se n’è andato nel 2010 perché lo statuto del club non gli permetteva di restare oltre, è tornato nel 2021 per provare a rianimare un colosso allo sfascio finanziario, asfissiato dai debiti e da una gestione, quella di Josep Maria Bartomeu, sciagurata. Per farlo, altro che Unicef e beneficenza e “Més que un club”: Laporta sta cercando euro anche sotto le pietre e ha ottenuto dai soci il permesso di cedere per 20 anni il 25% dei diritti tv blaugrana e il 49% di Blm, la società che gestisce l’appetitoso merchandising del club. Vere e proprie ipoteche per sperare di tornare grandi in campo e fuori.

Sponsor a pagamento

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Nel 2006 il Barcellona, tornato campione d’Europa a distanza di 14 anni dal primo successo, decide di “sporcare” la “camiseta”. Però Laporta non mette sul petto di Ronaldinho e Messi un marchio pubblicitario qualsiasi, una pecetta che al club poteva portare almeno 20 milioni di euro all’anno. No: fedele alla sua linea sociale e solidale il presidente va a New York a lasciare un milione e mezzo (a stagione) all’Unicef. Ronaldinho diventa ambasciatore Onu, la Fondazione blaugrana, diretta dalla cugina di Laporta, Marta Segú, lancia progetti in tutto il mondo.

Dentro Spotify

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Nel 2011 Sandro Rosell, nuovo presidente del Barça con Bartomeu come vice, acerrimo nemico di Laporta e mai estimatore di Guardiola, fa la rivoluzione: accordo di sponsorizzazione con Qatar Foundation (che poi sarà sostituito da Qatar Airways, e quindi da Rakuten) col logo Unicef che finisce sul retro della maglia blaugrana, parte bassa della schiena. Piovono 165 milioni, ritenuti molto più necessari dell’idealismo laportiano. Il Barça ha continuato a versare i 2 milioni all’Unicef fino allo scorso anno. Poi Laporta ha detto stop: alle Nazioni Unite ora vanno 100.000 euro a stagione per permettere al Barça di usare il logo dell’Unhcr, l’Alto Commissariato per i Rifugiati. Invece è stato stretto un accordo con Spotify da un minimo di 435 milioni di euro per sponsorizzare maglia da gioco e d’allenamento (4 stagioni) e dare il nome al Camp Nou per 8 anni. Non solo la maglia, è caduto anche lo stadio: ragion di Stato, un po’ come quando il Barça flirtava con l’indipendenza catalana, un’altra questione ora passata in secondo piano. Più che fare politica bisogna salvare la pelle economica.

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