I segreti del muro di Ancelotto, alto come un lungo Nba e con una testa incredibile. Calcio e maledizioni: da Pep al caso Akradio, quanto pesano. E i retroscena di un caso spinoso...

Giulio Di Feo

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Un Benzema tra i pali

Nel mondo di Thibaut

"Dio scenda e ci spieghi", titolavano in Spagna dopo il ribaltone che ha portato il Real in finale di Champions ai danni del City. Però senza scomodare il Supremo basta solo mettere insieme i pezzi: il più grande semplificatore di calcio in panchina, il miglior centravanti al mondo, i migliori piedi in mediana al mondo, la miglior riserva al mondo, e potrebbe pure bastare. Però il Real ha un altro segreto, non nascosto perché è alto due metri: il miglior portiere al mondo, Thibaut Courtois.

Un segreto meno celebrato di quanto dovrebbe, ma difendere i pali di una grande squadra è un lavoro noioso: nella maggior parte delle partite sei chiamato a pochi interventi in novanta minuti, e la gente se ne ricorda solo se li sbagli. Il Real di Ancelotti però è una squadra che fa il surf sulle emozioni, è uno di quei fighter che per darti due sberle a volte deve prenderne prima una. Concede circa 13 tiri a partita all’avversario di cui 5 in porta, dove però ha il portiere titolare di Champions con la più alta percentuale di parate, il 77,4%. E sono parate difficili, di istinto e reni, che valgono quanto i gol di Benzema. Già questo basterebbe, però come diceva Terim “i numeri sono come le minigonne, nascondono sempre la parte più interessante”.

E allora basta guardarlo, Courtois, magari con gli occhi di uno che vuole segnare e se lo trova davanti: ad altezza e apertura alare (2.10) di un lungo Nba aggiunge anche timing perfetto e gran rapidità di piedi, l’attaccante arriva al tiro che lo specchio è già quasi tutto coperto. Poi sa giocare coi piedi e impostare, comanda l’area e la difesa, ha riflessi e colpo d’occhio tra i pali e del dominio sui palloni alti non c’è manco da parlare. Strumenti che hanno anche altri portieri, ma lui a differenza di molti li sa usare: freddo quando conta, leader coi compagni, ha la calma del generale quando sta in porta. Oggi ad alto livello ci sono portieri estremamente funzionali alla squadra in cui giocano, ma che in valore assoluto non lo equivalgono e che soprattutto non pesano come pesa lui nei risultati del Real.

È una bella testa quella di Courtois: conduce un podcast in cui si racconta con pathos e ironia, ha finanziato il progetto di un quartiere residenziale a Bruxelles, gestisce un club esports e un’accademia per dj, finanzia una startup di tecnologia applicata all’allenamento. Ha sopportato situazioni di stress enormi per un professionista: otto anni fa si trovò in prestito all’Atletico Madrid a dover affrontare il Chelsea, suo proprietario, in semifinale di Champions. C’era una clausola voluta dai Blues per cui se Courtois avesse giocato contro di loro i colchoneros avrebbero dovuto pagare una penale di 3 milioni, l’Uefa la giudicò illegale, lui giocò e murò i poveri Blues che in porta andavano col simpatico Schwarzer. Mou lo riportò a Stamford Bridge dove in tre anni ha vinto tutto il vincibile in Inghilterra e ha fatto cambiare idea ai tifosi che all’inizio storcevano il naso, ma non ha mai fatto mistero di quanto avrebbe voluto tornarsene a Madrid dove aveva messo su famiglia. Alla fine ci tornò - per 35 milioni, vista oggi cifra clamorosamente bassa - ma lì c’era già Keylor Navas che in spogliatoio era uno di peso, e il dualismo non fu semplice. Si sono viste carriere più agevoli ad alto livello, insomma. Ma lui le salite le ha sempre superate senza urlare, senza sbalzi, solo con la forza della prestazione.

In questa Champions ha messo le mani in tutte le imprese del Real, e in alcuni casi - su Havertz contro il Chelsea o su Grealish nel ritorno col City - al mondo poteva mettercele solo lui. Un noto magazine di calcio internazionale non l’ha messo tra i 10 più forti al mondo, e Ancelotti ha pubblicamente invitato i redattori a restituire i tesserini da giornalista. Quando l’hanno chiesto a lui, risposta-lapide: “Non ho bisogno che qualcuno mi dica che sono il migliore, lo so già”.

Pep, l'Africa e le maledizioni

L’anatema di Seluk

A proposito del City eliminato, poi, figurarsi se non ritiravano fuori la vecchia storia della maledizione di Yaya Touré. Il caso nacque quando Guardiola arrivò a Manchester e si ritrovò in squadra la vecchia quercia ivoriana: i due non si amavano, per un anno provarono a prendersi con risultati sufficienti poi Pep di fatto lo mise fuori. Era capitato anche qualche stagione prima a Barcellona, dove Yaya era stato una scelta di Rijkaard e Pep al suo secondo anno iniziò a preferirgli Busquets. Però in Inghilterra Touré insinuò a mezzo stampa che Guardiola avesse dei problemi con i calciatori africani, e il suo agente Dimitri Seluk sganciò la bomba: “Dio vede tutto. Yaya è una leggenda del City, e il modo in cui Guardiola l’ha trattato gli ha messo tutta l’Africa contro. Il suo non è un errore ma un crimine, e gli sciamani si coalizzeranno per non fargli mai più vincere la Champions. Il tempo vi dirà se ho ragione”.

Da allora tempo per Pep dice: 2018, fuori ai quarti col Liverpool; 2019, fuori ai quarti col Tottenham con un gol in mischia di Llorente che ancora non si capisce con quale parte del corpo abbia toccato il pallone; 2020, fuori ai quarti con il Lione con un ultimo quarto d’ora in cui Dembelé pareva Pelé; 2021, finale persa contro il Chelsea con un gol di Havertz oggettivamente evitabile; 2022, sapete già. Poco per ipotizzare una maledizione? Sì. Il City aveva il potenziale per arrivare sempre almeno in finale? Sì.

Il fatto è che noi queste cose le concepiamo come boutade, anche quando si snocciolano le finali sciroppate dal Benfica per “colpa” di Guttman, in Africa però le questioni relative a magia, sortilegi, sciamanesimo e cose del genere sono serie, serissime. Racconti e aneddoti narrano in continuazione di sportivi e politici che tra il serio e il faceto provano a governare presunte forze paranormali, e proprio in Costa d’Avorio trent’anni fa ha preso forma in campo e sui giornali una maledizione non banale. Sui fatti ci sono tante versioni diverse, ma tutto ebbe inizio nel 1992 a Dakar, in Coppa d’Africa: gli Elefanti si giocavano contro il fortissimo Ghana di Tony Yeboah la più lunga finale che una competizione ricordi. Al ventiquattresimo calcio di rigore ricominciò il giro dei tiratori, e il difensore ghanese Tony Baffoe sparò il pallone in mano al portiere Gouamene, regalando la Coppa alla Costa d’Avorio. Che a quella finale non era arrivata da sola, perché pare che il ministero dello sport avesse ingaggiato per l’occasione i temibili stregoni di Akradio. Che è un piccolo villaggio a una cinquantina di chilometri dalla capitale rinomato nel paese per le capacità dei marabutti: c’è chi ha uno specchio magico che vede nel futuro, si dice, chi può comandare a un’ape di pungere un attaccante mentre tira, chi ha il potere di prosciugare le forze vitali di un atleta, e via così.

Il problema è che a Coppa vinta il ministero non saldò il dovuto, e gli stregoni di Akradio lanciarono la maledizione: finché l’onta non sarà lavata la Costa d’Avorio non alzerà mai più la coppa. E non è più successo: ci sono voluti 23 anni di figuracce e gente tipo Drogba, Gervinho o lo stesso Yaya Touré con le mosche in mano, poi le autorità ivoriane a furor di popolo si sono recate ad Akradio per scusarsi e saldare il debito. Così nel 2015 ancora contro il Ghana, ancora una maratona di rigori: sull’8-8 vanno i portieri, e lì l’eroe è Barry Copa che prima disinnesca il collega Razak e poi segna il suo riportando la coppa ad Abidjan. C’avranno messo lo zampino gli stregoni? Boh. Però l’effetto mediatico della magia nel calcio è di sicuro più forte di quello (presunto) vero: più se ne parla, più pesa sulle spalle...

Il Cile può andare ai Mondiali?

Tra troppe stelle stagionate, nuove generazioni che non si impongono e qualche tentativo di naturalizzazione, il Cile ultimamente non se la passa bene e si era rassegnato a vedersi i Mondiali in tv, poi è scoppiata la bomba Castillo e nel paese hanno iniziato a diffondersi speranze. Che è successo? Attraverso uno degli studi legali più forti del sudamerica in diritto sportivo, la federazione di Santiago ha sporto denuncia ufficiale alla commissione disciplinare della Fifa contro l’Ecuador e il terzino Byron Castillo per falsa documentazione di nascita: “Esistono prove innumerevoli che è nato in Colombia a Tumaco nel 1995 e non a General Villamil in Ecuador nel 1998 come dice”.

La vicenda del ragazzo è nota da tempo in Sudamerica, e spesso ha piazzato i bastoni tra le ruote della sua carriera: per tre volte le autorità ecuadoriane hanno indagato su di lui, gli hanno bloccato prima un contratto con l’Emelec e poi la convocazione nelle nazionali giovanili. L’iter si è protratto fino al 2021, quando l’ultimo grado di giudizio ha ratificato la sua cittadinanza ecuadoriana respingendo il ricorso del Registro Civile, così il ct Alfaro ha preso a convocarlo per le qualificazioni ai Mondiali della Tri e lui sulla fascia destra ha fatto valere il suo soprannome di “tres pulmones”. Di recente però un avvocato ha presentato ulteriori prove della sua nazionalità colombiana, un giornalista ha pubblicato i documenti su twitter e ha incendiato la rete, La Roja ha sguinzagliato i suoi legali che, a quanto pare, hanno trovato parecchio materiale.

La speranza del Cile è che all’Ecuador tolgano i punti delle partite in cui Castillo ha giocato, cosa che porterebbe loro ai Mondiali direttamente e il Perù agli spareggi, ed è basata sul caso recente di Nelson Cabrera, ex centrale della nazionale paraguaiana che la Bolivia naturalizzò per le qualificazioni a Russia 2018. Solo che le norme Fifa prevedono cinque anni di residenza nel nuovo paese per il cambio di maglia e Cabrera ne aveva solo quattro, così le due partite che aveva giocato diventarono due sconfitte a tavolino. Spettatore interessatissimo alla vicenda anche il Barcellona di Guayaquil, il club di Castillo: per lui aveva rifiutato un’offerta del Santos da 2,5 milioni convinto di venderlo ad almeno il doppio dopo i Mondiali. Eduardo Carlezzo, l’avvocato brasiliano che segue il Cile, è convinto: “Se non avessimo trovato prove sufficienti del fatto che Castillo è colombiano non avremmo agito”. I tempi sono stretti: commissione disciplinare, appello e tas, ma il Mondiale è tra pochi mesi.

L’Ecuador ha risposto subito con un comunicato cortese ma fermo, e molti legali interpellati sostengono che il precedente di Cabrera non calzi: lui era uno che palesemente non rientrava nella norma, Castillo a quanto scrivono dalle parti di Quito avrebbe solo alcuni documenti non in ordine ma un background limpido e facile da risalire e soprattutto una sentenza definitiva che ne attesta l’appartenenza all’Ecuador. Ora palla alla Fifa.

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